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Intervista a don Diego Lorenzi


25 anni fa Papa Luciani


 

LUCIANI: UNA LEZIONE VIVENTE PER IL MONDO

 

Sono trascorsi 25 anni dal 26 di agosto del 1978. Un quarto di secolo, che gli ha lasciato qualche ruga in più sulla fronte e parecchie esperienze. Sei anni nel seminario orionita di Campocroce di Mirano, al Berna di Mestre dall?84 all?87 come direttore, per 8 anni nel Canton Ticino in un centro per disabili. Poi tre anni nelle Filippine, un periodo che ricorda con grande nostalgia, ed infine a Tortona e di nuovo a Mestre, all'istituto Berna.

 

Don Diego Lorenzi è stato segretario del Patriarca Luciani a Venezia dall'estate del 1976 all'agosto del '78; e poi a Roma, nei 33 giorni di pontificato di Giovanni Paolo I. Durante questi anni ha mantenuto un discreto silenzio su quei 33 giorni e quella particolarissima e breve avventura, che però ha lasciato un segno profondo nella vita della Chiesa. Oggi accetta di rilasciare un'intervista al settimanale diocesano per ricordare assieme alla diocesi i 25 anni dalla elezione del Patriarca di Venezia al soglio pontificio e dalla sua morte.

 

Il nostro colloquio incomincia da un ricordo, che acquista significato proprio a partire da quella prematura scomparsa. Alla fine di luglio e all'inizio di agosto di quel '78, il Patriarca, su consiglio del medico, trascorse due settimane al mare, al Lido di Venezia ospite delle Ancelle della Carità, per curare un gonfiore ai piedi che lo infastidiva, segno di una cattiva circolazione. Il ricordo riaffiora, quando don Diego accenna alle fitte al petto che il Papa, la sera del 28 settembre, durante la cena, confidò ai segretari di aver avuto durante tutto il giorno, tanto che uno di loro consigliò inutilmente di chiamare il medico. La notte di quello stesso 28 settembre Giovanni Paolo I lascerà questo mondo, passando dal sonno alla morte.

 

Dov'era, don Diego, nel pomeriggio del 26 agosto, quando dal camino della cappella Sistina uscì la fumata bianca?

Ero in piazza San Pietro, in mezzo alla gente, che aspettava quella fumata, quando il cardinale Felici annunciò al mondo che il nuovo Papa si chiamava Albino Luciani. Parrà strano, eppure aspettavo quel nome. Anzi, avevo fatto cenno al Patriarca della sua probabile elezione la mattina del giorno in cui sarebbe entrato in conclave.

 

Quale fu la sua reazione emotiva, al sentire che il nuovo Papa era l'uomo col quale lei viveva e collaborava ormai da due anni?

Provai gioia, gratitudine a Dio! Un'ora e mezza dopo mi feci coraggio pensando che forse il nuovo Papa voleva vedermi. Lo vidi verso le 21.30, era a colloquio con il Segretario di Stato, era vestito di bianco e grondava sudore. Gli ricordai la frase che gli avevo detto il giorno prima, mi disse: "Va bene, va bene, va là... puoi andare a riposare, ci vediamo domani".

 

Si è fatto un'idea, don Diego, del perché i cardinali vollero Papa proprio Albino Luciani?

Il Patriarca aveva partecipato al sinodo del '74 e poi a quello del '77 sulla catechesi, dove aveva presentato un intervento del quale ritrovai alcune idee nel documento conclusivo del sinodo. Evidentemente in queste due circostanze si era fatto conoscere e benvolere dai cardinali. Si cercava un pastore, non un politico, non un tecnico, non un diplomatico. Un pastore sorridente, come scrisse un giornalista americano dopo la morte di Paolo VI: "Al prossimo Papa non chiederemo che sappia tante lingue, chiederemo che sappia mostrare la bellezza del Vangelo attraverso il sorriso".

 

Lei fu la persona più vicina al Papa in quei 33 giorni: come si muoveva Luciani nelle stanze vaticane?

Le stanze vaticane si riducono a pochi locali: uno studio, la camera da letto, uno studiolo medico dentistico, una sala da pranzo, un paio di locali per i segretari e una cappella. Da questi locali il Papa non si muove, se non per le udienze. L'unico tempo libero nel quale poteva uscire da queste stanze, lo adoperava per salire sopra il palazzo apostolico, dove nel '66 era stata ricavata una specie di "trincea" - mi si passi la parola - chiamata eufemisticamente "giardino pensile", perché il Papa potesse avere un'ora d'aria, proprio come i carcerati. Luciani ogni pomeriggio saliva e passeggiava avanti e indietro, leggeva, contemplava Roma senza essere visto.

 

E la giornata del Papa?

La vita del Papa è scandita da un'agenda preparata dalla Segreteria di Stato. Le udienze sono notificate la sera precedente dalla Prefettura della Casa pontificia. Ogni pomeriggio arrivano nell'appartamento del Papa due "valigie" piene di documenti che egli vede assieme al segretario e sigla, con quelle vecchie matite rosse e blu... Quando tutti i documenti sono stati visti dal Papa e siglati, le "valigie" vengono restituite alla Segreteria di Stato che manda avanti le pratiche col suo personale. Riceve poi una o due volte la settimana i capi delle Congregazioni, dei Dicasteri... Insomma, la vita della Santa Sede è ben impostata e strutturata in modo tale da andare avanti a velocità sostenuta. Anche il Papa vi si inserisce, con sapienza ed intelligenza, secondo le sue attitudini.

 

Luciani da Papa però continuò a parlare e predicare come era abituato. Era anzitutto un catechista: il mondo ricorda le quattro udienze generali, il suo colloquiare semplice con la gente, quando chiamò il chierichetto ad aiutarlo a far la predica... Che reazioni provocò in Vaticano questo stile, molto lontano da quello di Paolo VI?

Ne ricordo due, contraddittorie. Una di un giornalista dell'Osservatore Romano che disse: "Come mai avete tenuto nascosto quest'uomo all'intera umanità per così tanti anni?". L'altra di una persona che disse: "Quando il Papa avrà esaurito questi argomenti, nei quali crede e sui quali è bene che insista, di che cosa sarà in grado di disporre?".

 

Secondo lei, don Diego, di che cosa sarebbe stato in grado di disporre, se fosse vissuto ancora per molti anni?

In quelle catechesi sull'umiltà, sulla fede, la speranza e la carità il Papa ha ripreso temi a lui carissimi, che andava proponendo da anni, anche quando era Patriarca a Venezia. Temi che non avrebbe mai potuto esaurire. Poi, certo, c'erano i discorsi ufficiali, quando il Papa incontrava le rappresentanze, il corpo diplomatico... In questi casi si serviva dei collaboratori della Segreteria di Stato, come tutti i capi di Stato, i presidenti. Ma il cuore di Luciani ha parlato soprattutto nelle udienze generali, nel discorso al clero romano, quando alla fine egli chiese perfino scusa ai sacerdoti perché - disse - "aveva parlato dimesso", negli Angelus domenicali. Un modo di proporsi che veniva da lontano. Luciani ricordava il commento del suo parroco al primo articolo che scrisse per il bollettino parrocchiale a 16 anni: "E' ben scritto, ma sa di predica ed è troppo difficile. Pensa che lo deve leggere la vecchietta che abita in cima al paese. Te la immagini, povera vecchia, con gli occhiali sul naso e le mani che le tremano, davanti a queste parole e questi periodi così lunghi? Prova di nuovo, va a capo spesso, scrivi idee semplici, vestite di immagini...". Fu questa la sua scuola.

 

In quei 33 giorni fece anche gesti di discontinuità col modo di interpretare il papato...

Sì, fece alcuni piccoli gesti molto personali. Incominciò ad usare l'"io" al posto del plurale maiestatis, non volle iniziare il pontificato con l'incoronazione. Ricordo che, quando vennero a chiedergli che stemma volesse, rispose istintivamente, raggelando chi glielo proponeva: "Ma è una cosa medievale. Non vale proprio la pena che nel 1978 il Papa abbia uno stemma gentilizio". Poi umilmente lo accettò. Accettò anche la sedia gestatoria, perché gli permetteva di essere visto da tutti, ma toccato da nessuno. Scoraggiava cioè quel culto della persona che spesso è rivolto anche al Papa. Anche questo faceva parte della sua discrezione e umiltà.

 

Fu chiamato il Papa del sorriso: proviamo a dare un nome a quel sorriso?

Lo chiamerei "amabilità". L'amabilità lo ha sempre contraddistinto. Se sfogliamo una raccolta di foto di Albino Luciani, quand'era vescovo di Vittorio Veneto e Patriarca di Venezia, ci accorgiamo che questo atteggiamento sorridente era costante, soprattutto quando incontrava la gente comune, la povera gente. Ciò non toglie che Luciani avesse anche momenti di preoccupazione, tensioni e perfino angosce. Attraverso quel sorriso Luciani non intendeva essere accattivante di proposito. Gli veniva spontaneo, come gli è venuto spontaneo anche la mattina dopo l'elezione, quando, affacciandosi dalla basilica di San Pietro per salutare e benedire per la prima volta la folla, disse semplicemente: "Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei potuto immaginare quello che stava per succedermi". Fu proprio questa alternanza di stile narrativo e confidente col sorriso che gli ha subito accattivato la simpatia della gente. Lì è nata la definizione di "Papa del sorriso" che per me è un po' restrittiva, non dice pienamente quello che era Luciani. Dobbiamo ricordare però quello che era stato il '78 per l'Italia. In primavera c'era stato il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Paolo VI disse, rivolgendosi a Dio: "Tu non ci hai esaudito quando ti abbiamo chiesto la liberazione di quest'uomo buono".... L'Italia era preoccupata, tesa, sofferente, e un'apparizione così affabile, piena di confidenza, è rimasta subito impressa alla gente e gli ha procurato l'appellativo di "Papa del sorriso".

 

Chi era Luciani pastore?

Il suo approccio con la gente è sempre stato franco e sincero. Voleva parlare al cuore delle persone. Partiva dalla vita concreta come il Signore. Mi sorprendo ancora adesso, quando vado a Roma, di essere riconosciuto e accolto da persone che mi dicono: "Se Luciani fosse rimasto...!". Non so cosa avrebbe fatto Luciani se fosse vissuto più a lungo. So che avrebbe proposto alla Curia romana, alla Chiesa, al mondo intero se stesso come esempio, con umiltà, con semplicità. Ricordo quando, parlando del testamento, disse: "Io non ho niente: i libri li lascio al Seminario, il mio buon esempio ai parenti".

 

E chi era Luciani uomo, venuto dalla montagna?

Anch'io sono montanaro. I montanari hanno la fama di essere un po' asciutti, un po' riservati, poco comunicativi. Luciani era riservato, schivo, sempre di fretta quando usciva dal patriarchio, desideroso di tornare alla sua casa. Perché stava bene in casa, con i suoi libri, a leggere e pregare. Aveva rarissimi ospiti a pranzo e a cena, pranzava in venti minuti. Quando viaggiavamo, mi diceva: "Tu guida, io leggo, studio, ripasso, dormo". Tutto quello che rompeva il ritmo della preghiera e dello studio, lo viveva con fatica.

 

Com'era la giornata del Patriarca?

Era un continuo colloquio con Dio, fin dal mattino, quando alle sei e mezzo lo incontravo in patriarchio e gli chiedevo: "Eminenza, ha dormito stanotte?", e lui rispondeva: "Sì, questa notte mi sono fatto onore". Molte volte invece era in piedi dalle cinque. Diceva spesso, durante il giorno: "Mio Signore, mio Signore, mio Signore...". E' vissuto vicino a Dio, è stato un figlio che si è lasciato plasmare ed è riuscito ad avere in sé i frutti dello Spirito dei quali parla San Paolo, la bontà, la mansuetudine, il dominio di sé, la dolcezza... Quand'era Patriarca durante gli spostamenti in automobile, dopo il primo quarto d'ora occupato dal Rosario, reclinava leggermente lo schienale e, attraverso il raccoglimento e la preghiera, si concedeva un riposo contemplativo ma dinamico, abbandonandosi a quella che i Padri della Chiesa chiamavano "ruminatio Dei". Per un tacito accordo non era opportuno avviare la conversazione, ed io lo lasciavo tranquillo. Osservandolo però, immaginavo che entrasse nel Paradiso, il luogo della innocenza recuperata e della purezza ricostruita. Queste, arrivati a destinazione, si manifestavano in pienezza quando ne porgeva a tutti il frutto accattivante per la dolcezza, la delicatezza, la giovialità del tratto.

 

Un ricordo particolare di don Diego?

Quando mi chiese di fargli da segretario, mi disse: "Guardi che avrà una vita monotona. Si interesserà dei poveri che vengono a bussare alla mia porta, mi farà da cerimoniere, da autista, condividerà con me la vita quotidiana". Non dovevo fargli da filtro, non ci sarebbero state occasioni nelle quali avrei dovuto fargli da portavoce o sostituirlo, né scrivergli articoli, omelie, discorsi o fargli ricerche. Quel lavoro lo svolgeva sempre lui, in modo autonomo: consultava libri, prendeva appunti, studiava. Aveva poi una memoria straordinaria. Ogni tanto a Venezia veniva a trovarlo qualche prete di Vittorio Veneto, ne ricordava perfettamente il nomi, la situazione familiare.

 

E il rapporto con i suoi preti?

Credo che sia sempre stato all'insegna della amabilità, della cortesia e della compassione. Ha avuto problemi con alcuni sacerdoti della diocesi, non solo nei difficili anni settanta, ma sono convinto che tutti i preti abbiano potuto trovare in lui accoglienza, se la cercavano. Anche severità, certo, ma non bastonate, non umiliazioni. Severità e assieme amabilità, mai misure estreme. Diceva: "So che i miei discorsi verranno letti poco, ma se i preti vogliono sapere come la pensa il Patriarca, sanno dove cercare. Se non lo vogliono fare, pazienza". Si fidava dei sacerdoti di Curia, che incontrava e consultava con molta regolarità: il vicario generale monsignor Bosa, monsignor Volo, don Giuliano Bertoli, don Gino Bortolan, don Lorenzo Rosada, don Tino Marchi, i vicari foranei...

 

Era contento durante quei 33 giorni, il Papa?

Contento di essere stato eletto Papa? Direi assolutamente di no! Contento certamente di fare la volontà di Dio, come l'aveva accolta quando venne nominato vescovo di Vittorio Veneto e Patriarca di Venezia. Credo che fare la volontà di Dio, come gli aveva detto Papa Giovanni quando l'aveva consacrato vescovo, sia stata la costante della sua vita. L'essere stato Patriarca di Venezia gli ha dato più di una volta motivi di sofferenza e di stanchezza. Ricordo che una sera con me a tavola gli sfuggì un'espressione: "A volte chiedo al Signore che mi prenda con sé". Il mondo ne ha potuto godere solo per poco tempo. Fu "mostrato più che dato".

 

Di che cosa è morto, Papa Luciani? Di stanchezza, sotto un peso troppo grande da portare per le sue spalle?

Ho una mia interpretazione del suo breve pontificato. Io immagino il Signore che gli dice: "Senti Albino Luciani, hai sempre fatto la mia volontà. Vorrei che tu accettassi di farla anche da Papa, per offrire al mondo un volto disteso, sereno della Chiesa. Voglio che tu ricordi alla cristianità e agli uomini che dobbiamo imparare a praticare virtù in parte dimenticate. L'umiltà, in un mondo di scalatori e di arrivisti. Le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Quando avrai riproposto queste quattro lezioni fondamentali per la vita cristiana e per la vita del mondo, allora io potrei accettare la tua richiesta di passare all'altra riva"... E' la mia interpretazione. So che può essere benissimo contestata e lo è stata tante volte in questi anni, ma credo che dobbiamo leggere nella fede quel breve pontificato. Io qualche volta mi sono permesso di dire che in quel settembre 1978 ci fu l'ostensione della Sindone a Torino, mentre a Roma Dio Padre dava in ostensione al mondo intero un uomo ricco di Lui, che ci ha sollevato il morale, ci ha fatto gioire, e abbiamo rimpianto dopo la morte.

 

L'ultima domanda: cosa hanno cambiato quei 33 giorni nella vita di don Diego Lorenzi?

Poco. Nel mese successivo alla morte di Luciani sono rimasto dagli Agostiniani dove eravamo stati ospiti prima del conclave e altre volte quando venivamo a Roma. Non avevo l'ambizione di tornare nell'appartamento papale o di andare nella Segreteria di Stato, anche se avevo avuto una nomina di addetto di segreteria. Ho atteso anch'io i segni di Dio sulla mia vita e, quando è stato il momento, sono tornato nella congregazione degli orioniti, tra i seminaristi di Campocroce, con la consapevolezza di essere stato vicino per due anni ad un uomo santo. Quando ancora la memoria era fresca, ho parlato e scritto alcune cose su Papa Giovanni Paolo I. Poi mi sono chiuso nel silenzio: non in un silenzio sgarbato, ho detto soltanto basta. Ho preferito rivivere nella mia memoria il periodo trascorso accanto a lui, cercando di mettere in pratica l'esempio della sua vita.

 

Intervista a cura di Sandro Vigani